settembre, tra commissioni di inchiesta interne, ministeriali e delle procure, cosa ne sarà delle sperimentazioni al Sant'Anna di Torino e a Pontremoli e quali sviluppi avrà il caso del milanese Buzzi, forse è il momento in cui si può fare qualche libera riflessione.
Partendo da una constatazione - forse neanche tanto lombarda, ovvero non tanto condizionata dalla persistenza di giunte di centrodestra a Milano e in Lombardia - cioè partendo dall’idea che l’attacco alla 194 non è finito, anzi continua a venir alimentato da tante piccole azioni che mettono in causa non la legge in astratto ma la certezza del diritto, quindi l’effettiva possibilità di usufruire della legge, di poter decidere (o almeno codecidere) le terapie da utilizzare e, da ultimo ma non meno rilevante, dalla progressiva destrutturazione, quando non privatizzazione, dei consultori.
Abbiamo scoperto tutte insieme, il 14 gennaio, che la parola d’ordine della difesa della 194, dell’autodeterminazione, il principio di libertà e di responsabilità hanno grande consenso tra le donne e non solo, e attraversano tutte le generazioni.
La domanda è: possiamo fermarci a questo? Quale continuità ci propone il tempo trascorso da gennaio, o meglio da novembre a oggi?
Intanto personalmente mi rendo conto che non sopporto più, mi infastidisce, mi sembra ipocrita e “fuori da me” il fatto che ogni volta che parliamo di 194 dobbiamo ricominciare col dire che l’aborto è una sofferenza per le donne, che nessuna sceglie con faciloneria, che l’aborto non è una forma di contraccezione e ancora e ancora.
Come a dire che abbiamo le carte in regola per ….parlare del tema.
Come a dover ogni volta riaffermare che comunque dalla 194 un po’ le distanze dobbiamo prenderle.
Allora penso che non dobbiamo più esordire così, non tanto tra di noi, che abbiamo smesso da tempo di usare questa sorta di giustificazione, quanto sulla scena pubblica.
In altre parole, dobbiamo osare di più, essere meno difensive.
Ancora dobbiamo provare ad andare oltre la parola d’ordine della difesa della 194. Certo, nessuna sponda a qualsiasi tentativo di revisione della legge: non c’è il clima, non c’è, secondo me, neanche la necessità, ma applicazione vera, questo si.
Vertenze dunque, per la mediazione culturale, perché l’obiezione non determini le possibilità, e trasparenza, conoscenza dei termini della sperimentazione, possibilità di decidere quale terapia, se ricorrere ai farmaci o all’intervento chirurgico, senza diventare preda della ricerca farmaceutica.
Ovvero ricominciare a ragionare esplicitamente, direi impudicamente, di “noi e il nostro corpo” di noi e del nostro rapporto con la medicina.
Grande rispetto per la scienza e per la ricerca, ma forse anche un po’ meno di paura, di subalternità a saperi spesso maschili.
Questo riporta immediatamente alla domanda: quando abbiamo perso la presa? Dov’è che è cambiata la storia innescata dal movimento degli anni ’70? Forse quando, a un certo punto, si è dato per certo che i consultori fossero luoghi ormai acquisiti di prevenzione e di tutela della salute delle donne.
O forse - e non appaia sacrilego - nell’averli visti progressivamente trasformarsi in servizi per la famiglia, perdendo la funzione originaria di attenzione e di evoluzione dell’aspetto legato alla contraccezione.
Si apre qui il tema, lungo da sviluppare, di come in questi anni le donne siano rimaste “donne di” e non persone a tutto tondo; e in questo essere “di”, la famiglia è diventata il centro di tutto.
Per esempio quando servirebbe garantire processi di autonomia per i ragazzi e le ragazze si pensa ai bonus fino ai 18 anni: strana lettura della costruzione di un futuro proprio, progettato, elaborato, vissuto come conquista della propria crescita.
E’ l’approccio probabilmente che andrebbe analizzato: è un problema o no che le nuove generazioni restino in famiglia oltre i trent’anni, che la famiglia diventi e rimanga una catena lunga, l’ammortizzatore sociale per eccellenza?
E’ un problema perché si sostiene che la famiglia (almeno nei termini che si usano si potrebbe riconoscere che esistono “le famiglie”), è il riferimento delle politiche, quindi delle risorse, quindi della scelta che vi è una figura – guarda caso femminile – che garantisce dentro le mura domestiche tutti i ruoli, sostituendo lo stato, i servizi e, perché no, accompagnando al lavoro di cura anche la funzione di promozione dell’autonomia e della socialità.
Ma tutto ciò ci porterebbe troppo lontano, allora torniamo al punto.
Giustamente abbiamo criticato l’attacco al Buzzi, salutato positivamente le sperimentazioni: abbiamo dato una risposta politica netta e coerente, ma forse non basta, non dà il segno della crescita dell’elaborazione. E del resto è difficile elaborare in assemblea, sotto la pressione della notizia, ma è una necessità inderogabile per riprendere, intanto nel territorio, la capacità di avere risultati concreti che diano senso e sfondo all’iniziativa di mobilitazione.
Riprendere a riflettere collettivamente anche per comprendere se e come la legge 40 potrà tornare tema attuale oppure no. Adesso assistiamo allo scontro centrodestra centrosinistra intorno al Ministero della Salute o alle commissioni etiche del Senato.
Eppure quante volte ci siamo domandate se proprio la legge 40 non sia stata una somma di eventi che ha saltato il tema delle scelte delle donne e dell’invasività della medicina, della funzione della ricerca.
Da un certo punto in poi, c’è stato bisogno solo di schierarsi, ma si può ripetere lo schema?
Tutto legittimo, per carità, ma sopravviene un’altra domanda: la politica si considera del tutto autosufficiente?
L’esperienza dice che le migliori mediazioni sono quelle intervenute con la partecipazione di tanti soggetti, movimenti.
La lontananza della politica, che abbiamo visto dalla formazione delle liste alla formazione del governo, fino alle mille interviste, ad elaborazioni di temi così pregnanti nel chiuso di torri d’avorio, è tema che interroga anche noi.
Abbiamo detto e ci sono tutte le ragioni per ribadire che non c’è una politica di serie A, quella delle istituzioni, dei partiti, e una politica di serie B, quella dei movimenti.
Detto questo però il tema della relazione continua ad essere inesplorato, soprattutto rischia di essere frammentato dalle storie di ognuna, non cogliendo che Usciamo dal Silenzio non è e non può essere la somma delle storie di ieri, ma la domanda e il desiderio di partecipazione che attraversano storie diverse, e chiedono di guardare in avanti.
Sono domande impegnative, ma penso che non possono essere ignorate, bisogna immaginare come aprire un confronto vero, che certo ci pone il problema delle proposte, ma rilancia anche l’attualità della domanda che facemmo all’allora candidato e ora Presidente del Consiglio Romano Prodi: quale discontinuità?
Qualche affermazione anche brusca, l’idea che a settembre molto si affollerà…perché non approfittare della pausa per provare a parlarne?
Susanna Camusso
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Emilia ha scritto:
"Vorrei commentare alcuni punti della lunga e complessa intervista che Papa Benedetto XVI ha rilasciato alla televisione del suo Paese e che, naturalmente, non lascia cadere il tema dell’aborto, tanto caro alle gerarchie ecclesiastiche.
“Il cristianesimo, il cattolicesimo, non è un cumulo di proibizioni, ma un’opzione positiva…Anzitutto è importante mettere in rilievo ciò che vogliamo. In secondo luogo, poi, si può anche vedere perché certe cose non le vogliamo…Per quanto riguarda l’aborto, esso non rientra nel sesto, ma nel quinto comandamento: Non uccidere. E questo dovremmo presupporlo come ovvio, ribadendo sempre di nuovo: la persona umana inizia nel seno materno e rimane persona umana fino al suo ultimo respiro.”
Si enunciano quindi come dati di fatto incontestabili concetti che non appartengono né alla Bibbia, né al Vangelo e sono quindi, per definizione, direi, costruiti dall’uomo. I cosiddetti 10 Comandamenti, che appartengono al Vecchio Testamento e sono stati cooptati successivamente dal cristianesimo con opportune modifiche, sono in realtà molto più complessi della litania che molte di noi hanno imparato ai tempi del catechismo e sono precisati da una serie di norme accessorie molto interessanti. Nella Genesi (cap. 21 e oltre), Dio espone a Mosè una serie di norme di legge e corollari dei suoi Comandamenti, volti a regolare, fino nei minimi dettagli, la vita sociale del popolo eletto. Molti delitti devono essere puniti con la condanna a morte: è punito con la morte chi percuote o maledice il padre o la madre, per es.. Non si fa menzione, invece, dell’aborto, tanto caro alle nostre gerarchie ecclesiastiche, tranne che al versetto 22: quando, durante una rissa, uomini producano l‘aborto in una donna incinta, questi dovranno risarcire il marito, se egli lo vorrà, secondo un importo da lui stabilito. Un reato passibile di sanzione pecuniaria discrezionale, quindi, ben lontano dall’omicidio ossessivamente evocato da questo Papa, dal suo predecessore e dai suoi fedelissimi. Riguardo poi all’inizio della vita, la questione appare ancora più ingarbugliata. Fu Woytila, contraddicendo tutta la dottrina fondante, da Sant’Agostino a San Tommaso, a riconoscere dignità di persona anche ad un grumo di cellule e a sfidare il ridicolo, attribuendo all’embrione, sebbene “inferiore per dottrina”, le capacità di “comprendere, amare Dio e il prossimo” e di “contribuire all’edificazione della Chiesa”. E pensare che, secondo San Tommaso, gli embrioni non parteciperanno alla resurrezione, perché “in loro non era stata ancora infusa l’anima razionale